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Un'app che consente di interagire con la polizia e permette di inviare, anche in maniera anonima, segnalazioni riguardanti episodi di bullismo o di spaccio di droga: è 'YouPol', l'applicazione per smartphone e tablet (presentata in un istituto professionale alla periferia di Roma dal ministro dell'Interno Marco Minniti e dal capo della Polizia Franco Gabrielli). Con 'YouPol' si possono inviare segnalazioni (allegando anche foto) direttamente alle sale operative

Fonte e link al video:
https://video.repubblica.it/cronaca/stanno-picchiando-mario-ecco-la-app-della-polizia-per-denunciare-bullismo-e-spaccio/289182/289793

YOUPOL / App Store Android:
https://play.google.com/store/apps/details?id=it.poliziadistato.youpol&hl=it

YOUPOL / App Store iTunes:
https://itunes.apple.com/it/app/youpol/id1280831175?mt=8

Novara, all’incontro de “La Stampa” con Emma Marrone i ragazzi escono allo scoperto.

Chi si sarebbe mai aspettato che una volta apertosi il grande sipario del Teatro Coccia con Emma Marrone avremmo vissuto due ore e mezza di emozioni da pelle d’oca. I 900 ragazzi presenti all’incontro con una delle cantanti più amate del nostro Paese sapevano che ieri non si sarebbe parlato di musica. L’argomento li riguardava da vicino, a Novara è morta suicida a 14 anni Carolina Picchio, la prima vittima italiana di cyberbullismo, ma non era facile da affrontare. Un conto è parlare di bullismo e un conto è farsi raccontare come si sente chi le vessazioni le soffre tutti i giorni. Per questo, dopo aver ascoltato le esperienze di vita («alzi la mano chi non ha mai vissuto sulla sua pelle qualche sopraffazione da parte di qualche coetaneo») di un’artista che da sempre si batte perché la parola «bullismo» sparisca dal vocabolario ed essere entrati fin dentro le viscere di un problema sfuggente e strisciante, il microfono si è spostato in platea.

[Fonte / La Stampa / 21-11-2017: http://www.lastampa.it/2017/11/21/italia/cronache/bullismo-le-vittime-alzano-la-voce-yW4U0IcK02rRxK4CmkeIMJ/pagina.html ]

Un metodo applicato da decenni nei paesi scandinavi non prevede accuse e punizioni, ma si concentra sulla riparazione del danno: e pare funzioni bene.

Sull’edizione francese di Slate, l’insegnante Rachid Zerrouki ha scritto un lungo articolo sul bullismo nelle scuole e sul cosiddetto “metodo dell’interesse condiviso” inventato dallo psicologo svedese Anatol Pikas e applicato da almeno trent’anni nei paesi scandinavi. Il metodo non si basa su una logica punitiva: il bullo non viene cioè accusato o colpevolizzato, ma gli viene richiesto di dare un contributo costruttivo e di suggerire una strategia per migliorare la situazione delle persone che lui stesso ha colpito. Insieme all'”approccio senza accusa” sviluppato nel Regno Unito è considerato sempre di più uno dei metodi migliori per gestire molti casi di bullismo.
La vecchia scuola
Zerrouki racconta un episodio preciso che le capitò nel 2015, con protagoniste due bambine di quinta elementare, Lina e Capucine. Lina era una bambina che amava leggere, disegnare e fare attività solitarie. In classe era discreta e dimessa tanto da far dimenticare la propria presenza, e non aveva particolari difficoltà. Dopo alcuni mesi dall’inizio della scuola, Lina si confidò con la madre: Capucine, la sua amica di sempre, le dava fastidio e le rubava le penne. Ogni giorno, con la complicità di altri compagni, le lanciava nei capelli piccoli pezzi di carta pieni di colla. Capucine era una bambina estroversa e brillante. Fino alla terza elementare lei e Lina erano migliori amiche. Ora provava invece piacere a far ridere i suoi nuovi amici e le sue nuove amiche umiliandola. E dunque, solamente quando aveva l’attenzione degli altri su di sé, faceva delle piccole palline di carta, ci metteva della colla e le lanciava contro Lina. La discrezione di Lina, scrive Zerrouki, era solo una strategia di adattamento a un ambiente ostile: parlava poco e docilmente per non attirare l’attenzione degli altri, per risultare indifferente e per smettere di essere il loro bersaglio.
Come e perché, si chiede Zerrouki, all’improvviso Capucine si era trasformata da compagna di giochi in bulla? E in che modo Lina era diventata la vittima di una piccola banda che si divertiva a farla soffrire? Tra Lina e Capucine era nato «un divario tra due modi di essere». Lina era autonoma, sensibile, riservata e capace di empatia. Capucine non era ancora in questa fase, era impulsiva ed egoista. Gravi problemi familiari la rendevano poi una bambina arrabbiata: non potendo controllare i propri sentimenti, aveva applicato il meccanismo di difesa che Ana Freud ha chiamato “identificazione con l’aggressore”. Gestiva cioè la paura e il timore trasformandosi da quella che veniva minacciata in quella che minacciava.
Dopo aver ascoltato la madre di Lina, l’insegnante reagì in modo istintivo: rimproveri, punizioni, note e aumento della sorveglianza. «Ho senza dubbio protetto Lina per un certo periodo e in un certo luogo, dimenticando però che tutto quello che accadeva poteva continuare ad accadere ogni volta che io distoglievo lo sguardo e nei luoghi dove la mia legge e il mio controllo non erano più validi o non erano presenti. La repressione è una benda su una gamba di legno», scrive Zerrouki.
La “tolleranza zero”
Contro il bullismo – che può avere gravi conseguenze e che in Italia, secondo i dati Censis del 2016, viene subito dal 52,7 per cento degli studenti tra gli 11 e i 17 anni – sono stati sperimentati diversi metodi: ci sono gli approcci individuali di tipo punitivo e sanzionatorio, quelli di tipo riparatorio che intervengono nella relazione bullo-vittima, quelli che si concentrano sulla vittima o sulle famiglie e quelli non punitivi che si occupano dell’intero contesto dove avvengono comportamenti violenti, oppressivi o prepotenti.
Nel 1982, spiega Zerrouki, due scienziati sociali, James Q. Wilson e George L. Kellin, elaborarono la “teoria della finestra rotta”, un principio secondo il quale è necessario perseguire le infrazioni minori per evitare il diffondersi di reati più gravi. La ‘teoria della finestra rotta” dice questo:

«Pensate a un palazzo con alcune finestre rotte. Se le finestre non vengono riparate, i vandali avranno la tendenza a romperne qualcun’altra. A un certo punto potrebbero entrarci e, se non è occupata, occuparlo o accendere dei fuochi al suo interno. Oppure pensate a un marciapedi. Dell’immondizia comincia ad accumularsi. In breve si accumula molta altra immondizia. Alla fine la gente comincerà a buttarci i sacchetti dei ristoranti da asporto, oppure potrebbe cominciare a scassinare le auto».

La teoria ebbe molto successo negli Stati Uniti quando tra gli anni Settanta e i primi anni Novanta il numero dei reati violenti, in calo da decenni, subì un fortissimo incremento (lo stesso avvenne in gran parte del mondo sviluppato). Rudolph Giuliani, sindaco di New York tra il 1994 e il 2001, e il suo commissario di polizia, William Bratton, la applicarono iniziando a perseguire con severità infrazioni minori come saltare i tornelli della metropolitana o dipingere graffiti sui muri. L’introduzione della strategia della tolleranza zero coincise con il calo nel numero dei delitti, e molti ritennero che tra i due fenomeni ci fosse un relazione causale. Dopo anni di sperimentazione, però, ci sono pochi elementi che suggeriscono che l’utilizzo sistematico di queste strategie abbia prodotto risultati significativi in termini di lotta al crimine. Tra gli scienziati sociali stessi non c’è ancora accordo sulle cause dell’incremento dei crimini tra gli anni Settanta e Novanta e sulla loro successiva diminuzione.
Negli anni Novanta, negli Stati Uniti, la teoria venne comunque applicata anche nella scuola per combattere molestie e bullismo. Il 79 per cento delle istituzioni scolastiche attuò dunque una forma di “tolleranza zero”: sanzioni esemplari e espulsioni quasi immediate al minimo episodio di bullismo. I risultati, dice Zerrouki, furono però disastrosi: senza un vero sostegno bambini problematici, una volta esclusi, diventavano adulti problematici. Se la vigilanza e la repressione fossero sufficienti per arginare il bullismo nelle scuole, sarebbe un problema risolvibile tutto sommato facilmente e in modo lineare: in realtà, dicono gli esperti, è molto più complicato di così.
Il metodo Pikas
Negli anni Settanta, lo psicologo svedese Anatol Pikas elaborò un metodo non repressivo preferendo parlare di “mobbing” e non di “bullismo”, facendo riferimento all’etologia e al comportamento di alcuni uccelli che adottano in gruppo una serie di comportamenti contro un intruso. La parola “mobbing” viene utilizzata soprattutto per i contesti lavorativi, ma più in generale può indicare i comportamenti violenti che un gruppo (sociale, familiare, animale) rivolge contro un suo membro.
Mentre il bullismo fa riferimento a una persona singola che attua un comportamento violento o aggressivo, mobbing fa riferimento a un insieme di persone: è una premessa molto importante per capire il metodo di Pikas. Per lui l’aspetto collettivo è infatti la componente essenziale di questo specifico tipo di violenza: l’intenzione primaria dell’aggressore non è quella di danneggiare il suo obiettivo ma quella di rispettare ciò che il gruppo si aspetta da lui. E questo, spiega Zerrouki riprendendo la sua storia, è il motivo per cui Capucine aspettava di avere su di sé l’attenzione dei suoi compagni: per offrire loro lo spettacolo dell’umiliazione di Lina. Se non c’è domanda, non c’è offerta, si potrebbe dire.
La strategia di Pikas si chiama “metodo dell’interesse condiviso” e oltre ad essere applicato nei paesi scandinavi da circa trent’anni viene utilizzato in via sperimentale in alcuni paesi francofoni come Francia, Belgio e Svizzera, e anche in Australia. Due ricercatori australiani hanno condotto un’indagine su questo metodo dimostrando nel 2010 che, ovunque sia stato messo in pratica, ha raggiunto ottimi risultati. Il metodo parte dal presupposto che le molestie e il bullismo siano un fenomeno di gruppo: ci sono studenti il ??cui coinvolgimento è maggiore, altri che partecipano in modo indiretto (ad esempio ridendo) e poi c’è il resto della classe che resta a guardare.
Concretamente, il metodo di Pikas consiste in una serie di incontri tra l’insegnante e tutti i protagonisti per fermare la dinamica di prepotenza. Si ritorna sui fatti, si riconoscono, si stabilisce il grado di coinvolgimento di ciascuno, quindi si pensano insieme delle azioni per porre rimedio alla situazione. Il bullo dominante non viene punito e non viene giudicato. Tutta l’attenzione si concentra sul riconoscimento dell’ingiustizia e sulle azioni riparatrici.
La prima fase prevede degli incontri individuali tra intimidatori e insegnante, che adotta un atteggiamento empatico e che mostra preoccupazione per la situazione dello studente bersaglio del bullismo. Chiede a ciascuno di descrivere che cosa è successo, e non appena viene riconosciuta la difficoltà in cui si è trovato lo studente bullizzato ci si chiede anche che cosa si possa fare per migliorare la sua situazione: i bulli sono dunque incoraggiati a diventare i soggetti che possono risolvere il problema che loro stessi hanno creato, e vengono messi in condizione di riparare ciò che hanno fatto. Le interviste sono brevi, seguono un copione di domande ben codificato e si rinnovano fino a quando i vari bulli non propongono soluzioni costruttive. E sono individuali per annullare l’effetto di gruppo, e per re-invidualizzare ciascuno dei membri. Per Pikas è molto importante non alterare la sequenza delle domande, non fare commenti e non cedere al desiderio di fare altre domande.
Solo dopo la prima fase, l’insegnante incontra la vittima informandola degli incontri precedenti e dei suggerimenti che gli intimidatori stessi hanno proposto. Chiede anche se la vittima è disponibile ad accettare un incontro con i bulli. La terza fase prevede una verifica sia con i bulli, per accertarsi che i loro suggerimenti siano stati seguiti, sia con la vittima, per scoprire se ha notato dei miglioramenti nella propria situazione. Soltanto se la vittima è d’accordo, può avvenire un incontro collettivo, con l’obiettivo di mostrare che l’intimidazione è definitivamente parte del passato.
Il metodo viene suggerito per gli studenti che hanno almeno nove anni, ma secondo alcuni critici presenta dei problemi: può innanzitutto funzionare sui casi di bullismo più lievi o occasionali, mentre la sua efficacia sui casi più gravi è oggetto di dibattito. E soprattutto prevede un percorso lungo, complesso e non immediato, che non tutti gli insegnanti sono disposti a intraprendere.

[Fonte / Il Post / 26-11-2017: http://www.ilpost.it/2017/11/26/bullismo-sempre-usato-lapproccio-sbagliato/ ]

 

 

Ieri sera a Merlara é stata una serata positiva all' 'insegna del confronto tra operatori e del dialogo con i genitori .Il Bullismo si puo' combattere con l' apertura , il non giudizio , e con la sinergia tra ragazzi, genitori , insegnanti, ass. sportive e parrocchiali.

 

 

L'artista annuncia il nuovo pezzo con un lungo e introspettivo post su Instagram

Milano, 21 novembre 2017 - J-Ax canta contro il bullismo. "Devi Morire” è il titolo del brano, che si potrà ascoltare su Spotify da venerdì 24 novembre, che racconta la piaga del bullismo, di cui lo stesso artista milanese è stato vittima nel corso dell'infanzia e dell'adolescenza.

Un brano, dunque, per certi versi autobiografico. "Sapete quanto il bullismo sia un problema che mi tocchi particolarmente da vicino - ha scritto lo stesso J-Ax in un lungo post su Instagram, annunciando il brano - sono cresciuto senza poter mai camminare tranquillo. I gruppi di ragazzini che incontravo per strada mi facevano cambiare marciapiede. Ancora oggi sento un groppo in gola quando li vedo, nonostante abbia milioni di nipoti che mi dimostrano il loro affetto. Perché puoi uscire dal bullismo, ma la tua vita rimane inevitabilmente segnata".

[Fonte / Il Giorno / 21-11-2017: http://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/j-ax-bullismo-1.3551534 ]

Sky TG 24: ecco come funziona la nuova app "YOU POL" che permette di segnalare, con foto e video, episodi di violenza, bullismo e droga. Servizio di Federico Sisimbro: https://www.facebook.com/SkyTG24/videos/1769706663102946/

 

 

 

Monza, denunciato alla Procura dei minori un ragazzino che da mesi ossessionava la compagna

Monza, 1 novembre 2017 - "Se non lo fai spiffero tutto". Agli amici e ai compagni di classe. Tutti ragazzini fra i 14 e i 15 anni. Avrebbe raccontato i loro rapporti sessuali nei bagni della scuola. Avrebbe pure fatto circolare in rete, in un perverso passaparola digitale, quelle immagini hot che l’aveva costretta a inviargli su Whatsapp. Un incubo durato mesi, in un istituto privato di Monza. Finito con una pesante accusa a carico del presunto aguzzino, oggi sedicenne: violenza sessuale continuata, con l’aggravante di averla commessa in ambiente scolastico.

Una storia di disagio sullo sfondo di una Monza benestante. Di eccessi e cyberbullismo. Giochi pericolosi sfuggiti di mano. Su cui sta indagando la Procura per i minorenni di Milano dopo la denuncia della vittima. Compagna di scuola del ragazzino. Costretta, in almeno dieci occasioni, ad avere rapporti sessuali nei bagni. Gli episodi risalirebbero all’anno scolastico 2015-2016, ma le violenze sarebbero continuate anche quando lo studente aveva cambiato istituto. Fino addirittura ai primi mesi di quest’anno. Violenze psicologiche, questa volta.

Perché secondo quanto raccontato al pubblico ministero, il ragazzino ossessionava la ex compagna con messaggi su Whatsapp nei quali le intimava l’invio di altre foto e video che la ritraessero nuda e in atteggiamenti sessuali, minacciandola – in caso di rifiuto – di condividere sempre tramite la app di messaggistica istantanea ma anche su altre community della rete, tutto il materiale hot fino ad allora ricevuto. E anche di svelare ai compagni quello che era successo fra di loro. Ora l’incubo è finito. Anche se la ricostruzione di quanto sarebbe avvenuto nella scuola monzese ha portato alla luce altri episodi che la dirigenza dell’istituto aveva classificato come "episodi di bullismo". Fatti puniti con provvedimenti "del tutto arbitrari", secondo parte dei genitori degli studenti che avevano pure rimarcato il "fallimento educativo della scuola". Nei telefonini degli studenti, infatti, erano stati trovati messaggi con frasi razziste riferite a compagni di colore, botta e risposta con un "linguaggio aggressivo e irrispettoso" e ancora scambi di immagini e filmati con un esplicito contenuto pornografico.

Articolo di Marco Galvani

[Fonte / Il Giorno / 1 Novembre 2017: http://www.ilgiorno.it/monza-brianza/cronaca/ricatto-foto-hot-1.3503177?wt_mc=fbuser ]

Hanno filmato tutto e poi hanno diffuso il video sui social. È servito l'intervento della Squadra Mobile di Ragusa per farli pentire del gesto. Due sono stati denunciati per violenza privata

Solo qualche giorno fa l’appello di Papa Francesco contro il bullismo ai giovani riuniti nello stadio San Siro di Milano. E chissà se il ragazzino vittima di uno scherzo terribile a Ragusa non sia stato incoraggiato a denunciare gli abusi dal richiamo di Bergoglio. Un adolescente siciliano, più volte preso in giro da un gruppetto di coetanei, è stato costretto a spogliarsi e ballare nudo alla fermata dall’autobus, davanti a una ragazza, mentre il branco lo riprendeva. Quelle immagini umilianti sono poi puntualmente finite sui social network. La vittima però volta si è ribellata e ha raccontato tutto a un insegnante della scuola superiore che frequenta. Il professore ha informato il preside che a sua volta ha allertato gli agenti della Squadra Mobile della città.

Dopo aver ascoltato il ragazzo davanti al padre e ad alcuni psicologi, i poliziotti hanno interrogato i responsabili, che prima si sono contraddetti a vicenda, poi hanno confessato e sono scoppiati a piangere sostenendo di voler fare soltanto uno scherzo. Gli agenti li hanno fatti scusare con il compagno a riprova del loro pentimento. Due però – secondo quanto riporta La Sicilia – sono stati denunciati per violenza privata. Il ragazzino, che in passato aveva accettato di essere coinvolto in scherzi pesanti per non essere escluso dal gruppo, è stato infatti circondato da cinque o sei coetanei che lo hanno anche colpito per costringerlo a togliersi i pantaloni. Le immagini riprese con uno smartphone sono state pubblicate in diretta su Instagram per 24 ore.

“La polizia di Stato – spiega il capo della Mobile Antonino Ciavola a Il Giornale – ha condotto un’indagine brevissima quanto efficace per appurare i fatti narrati coraggiosamente dalla vittima, mettendo fine alle angherie e prevenendo ulteriori fatti illeciti. Fondamentale il rapporto tra scuola e Squadra Mobile, risultato efficace per una risoluzione del problema a poche ore dalla denuncia. Gli uffici della Squadra Mobile sono pronti ad accogliere le vittime del bullismo in qualsiasi momento”.

[Fonte / Il Fatto Quotidiano / 30-03-2017: https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/03/30/ragusa-bulli-obbligano-compagno-a-ballare-nudo-mentre-aspetta-lautobus/3486244/ ]

Marco ha 16 anni, fa il professionale in una scuola di periferia, a Torino. Il suo calvario comincia nel 2013, ma servono due anni di torture e finire quasi morto, perchè trovi il coraggio di raccontarle.

Due compagni di scuola, più grandi di un anno, lo stupravano con un ombrello, lo costringevano a mangiare cacca di cane e lumache vive, a bere fino a cadere tramortito e dopo lo abbandonavano svenuto nel fango, gli dicevano che doveva dimostrare di non essere omosessuale.
Quando ha saputo di dover testimoniare al processo, Marco ha avuto una crisi di nervi tremenda , è scappato di casa. La sua tortura dura anche adesso, lo seguono gli psicologi ma non ha più vita.

E se fosse capitato a nostro figlio?
I due bulli, che negano tutto, sono stati condannati ieri. 8 anni e mezzo in carcere, interdizione perpetua dai pubblici uffici e da lavori che riguardino minori.
I giudici del Tribunale ordinario che li ha giudicati, perché sono diventati maggiorenni all’epoca delle torture, hanno detto di aver scelto una condanna “esemplare”. Gli avvocati dei due bulli hanno annunciato ricorso.
Io credo, magari sbaglio, che dovremmo provare ad affrontare la violenza del bullismo rompendo il plancton di cui si nutre.
Credo che i bulli si sentano invincibili e impuniti, perchè da minorenni rischiano al massimo l’affidamento ai servizi sociali.

Quando New York era un posto dove ti ammazzavano per strada, dove in certi quartieri non potevi andare, il sindaco Giuliani inventò la “tolleranza zero”. L’idea era di insegnare ai newyorkesi il principio di legalità, punendo con pene certe e gravi anche i reati minori. Funzionò.
Il bullismo comincia con le angherie e arriva fino alle torture e allo stupro.
Se passa nella testa di chi fa violenza ai compagni la paura di essere condannati , invece che ammirati e temuti , io credo che avremmo fatto il primo passo per restituire ai nostri figli la dignità e la fiducia.

Articolo di Antonella Boralevi / https://facebook.com/antonellaboralevi / www.antonellaboralevi.it

[Fonte articolo / La Stampa / 31-10-2017: http://www.lastampa.it/2017/10/31/societa/lato-boralevi/sentenza-a-torino-diciamo-ai-ragazzi-che-i-bulli-vanno-in-carcere-per-anni-aR4FZUz5jh3Hs4hWAGG4SO/pagina.html ]